di Raffaella Guidi Federzoni
Nei miei tempi lontani e giovanili lavoravo per un notissimo gioielliere romano, allora votato alla produzione di oggetti di altissimo artigianato e non ancora diventato un marchio internazionale del lusso. Condividevo l’ufficio con la gemmologa, cioè la persona addetta a scegliere le pietre preziose e semipreziose che sarebbero state incastonate nell’oro e nel platino per la gioia delle donne e la disperazione degli uomini e del loro portafoglio. Passavano su quel tavolo brillanti, smeraldi, rubini e zaffiri di diversa qualità.
La mia giovane collega scrutava e smistava. Nonostante la scarsa esperienza era stata scelta e rallevata dai titolari per il suo occhio infallibile nel riconoscere non solo la qualità, ma anche le pietre false. Purtroppo poteva accadere che per vie traverse arrivassero anche gemme costruite in laboratorio per sintesi, alcune veramente molto ben fatte. Nel migliore dei casi riuscivano ad ingannare anche un esperto e solamente con apparecchiature adatte ed analisi costose era possibile scoprirne la falsità. C’era però chi, come quella gemmologa, che d’istinto percepiva una nota stonata, nonostante la brillantezza apparente, o forse proprio per quella.
Tutto ciò mi torna in mente a volte quando leggo di geniali falsari capaci di ingannare espertissimi curatori di musei e collezionisti come Eric Hebborn che nel suo libro autobiografico “Manuale del falsario” scrive “L’arte del falso è un’arte ‘da cucina’: uova per la tempera, latte come fissativo, mollica di pane come gomma da cancellare, patate per rimuovere macchie di grasso ed olio d’oliva per crearne di nuove” .
In fondo però a noi comuni mortali dovrebbe importare poco l’autenticità di un’opera, se questa comunque ci trasmette piacere ed emozione. O no?
Questo mi chiedo anche relativamente a certi vini, anzi grandi vini. Vini osannati e premiati, vini che all’assaggio offrono di tutto e di più, un’enciclopedia sensoriale che stenderebbe anche un rinoceronte. Vini che si esibiscono in una performance da orchestra sinfonica di 80 elementi. Vini che esprimono la grande capacità del autore, ma che non sono riconducibili ad una zona o ad un territorio, solo ad un accurato lavoro di cantina. Vini che vivono in funzione di se stessi, isolati da quello che sta intorno. Vini che per un po’ vanno al massimo, fino a quando non ne arriva un altro a scalzarli dal podio.
In fondo però a noi comuni enoappassionati dovrebbe importare poco la veridicità di un vino, se questo comunque ci trasmette piacere ed emozione. O no?