Vini di Svelandia

Capo Maori

di Maria Ernesta Berucci

C’è un momento nella vita di una figlia d’Arte (del Bere) in cui si esce fuori dal giardino di Casa e da cortigiana del vino si cerca di diventare avventuriera.

Si scelgono essenziali strumenti di sopravvivenza: un block notes RHODIA Lined; un cellulare android di penultima generazione; i tappi per le orecchie gialli fluorescenti per sopravvivere alle notti negli ostelli e una bottiglia del vino di casa per eventuali attacchi di malinconia, per necessari baratti di sopravvivenza o per affermare la propria ‘credibilità’. Infine un glossario in inglese dei termini tecnici del vino e della vite: N.18 termini di cui almeno per la metà in verità non si conosce il loro significato neanche in italiano Tra tutti i più simpatici “Prunning” e “Cropping” che comunque, come gli altri 16, io non ho mai usato nelle mie conversazioni.

Così mentre nelle Terre del Cesanese si terminava la vendemmia 2012, io ho comprato un volo per le Terre di Mezzo dove arrivata, mi sono ritrovata in piena vendemmia, alter-ego, 2013. In Nuova Zelanda per inciso stanno dodici ore precise avanti a noi, con stagioni inverse primavera qui, autunno lì. Alterando un po’ le concezioni logiche, stanno avanti quindi di un’annata circa.  E con questo senso di ebbrezza da Viaggio nel Tempo, ho cominciato a cercare una mappa-guida per la mia Svelandese avventura. E poiché dalle mie parti, e in genere un po’ ovunque ultimamente, si alzano quesiti e confronti intorno alla mappa-guida della viticoltura bio-simpatica, (simpatico: dal greco: [syn] con, insieme [pathos] passione, sentire) ed io non trovo per nulla dinamizzato il suddetto dibattito con lo stabilimento della ‘monnezza’ che va a fuoco a destra, e i gabbiani che se magnano i piccioni perché non ci sono più pesci nel mare, a sinistra. Sono stata colta così da un impeto da Wine’s Jones d’assalto e ho simpaticamente deciso che avrei dedicato l’avventura alla realtà enoica organica e biodinamica Svelandese, che mi sembrava molto impegnata su questo fronte, cercando di capire se biodinamici si diventa o si nasce. Un po’ come: nasce prima la gallina o l’uovo?

Ho rivolto a tutti la domanda: Perché avete scelto la viticoltura organica?  E ho ricevuto da tutti la medesima risposta: Why Not?

E in effetti a posteriori … ‘Why not ’ fare coltivazione organica nelle terre di mezzo? Dove in mezzo trovi soprattutto vacche, pecore, fringuelli, faithful, fiumi, laghi, montagne, bush, terre ricche di sostanza ancestrali e minerali e non trovi predatori che mangiano gli uomini o abbastanza uomini da depredare gli immensi spazi vergini.

Ci sono spazi sconfinati e vigne che lo sono altrettanto in Nuova Zelanda e per non trovarmi a vino vagare in preda a facili specchietti per i faithful, divorata da qualche falco “lievitante” o persa nei labirinti sensoriali esotici di ananas, papaya e mango,  ho concentrato l’impeto della Wine’s Jones  sul Pinot Noir. Forse proprio perché la Nuova Zelanda è conosciuta dai più per i suoi bianchi che io ho scelto di scoprire i rossi e poi memore dei Pinot Noir della Wien Strass e della mia prima degustazione monografica sulla Borgogna, mi sentivo un po’ protetta da qualche memoria eno-sensoriale di base.

Principiamo con un quanto non completo excursus, perché sono certa che alcune suggestioni me le hanno date contesti e persone. Forse proprio per questo di circa 100 vini assaggiati, ho riportato solo otto bottiglie. Chiaramente vien da pensare che siano il TOP della mia esperienza enoica… non è esattamente così.

Ci sono stati vini che mi hanno ‘preso per la Gola’, come solo chi ha capito che il cliente/turista va coccolato, sa fare, soprattutto per far digerire che, nel proprio ristorante so cool interno alla cantina, gli stai chiedendo, senza alcun preavviso, il 30% in più solo perché è Pasquetta.

Poi ci sono i vini “presi su fiducia”, ossia quelli del “famose a fida’”. Buona la prima, magari anche la seconda.

E ci sono quei vini che rispondo a pieno al “Why Not?” e alla scelta che fa bene uscire dal proprio giardino ed entrare dinamizzati in quello di qualcun altro, dove magari ritrovi un pezzetto del tuo.

Il vino della gola e del lusso

Quando salendo verso il ristorante di Stonyridge, sull’isola so inn di Whaieke davanti Auckland, il sentiero di cipressi si è aperto su un paio di curve “da architettura di paesaggio”, ho impattato subito con la realtà vitivinicola “cool” e ho capito quanto posso spingersi in là le aziende vitivinicole nel mondo in termini di “ Tuscany  rural style”. Sono stati bravissimi devo riconoscerlo … ci hanno coccolati e presi realmente per la Gola. In un excursus di vini e cibi su cui non posso avere note di demerito. Resta solo la differente opinione con i risultati del Guida Vini must nazionale che premia un vino chiamato “La Rose”, blend di tutte le varietà prodotte in azienda, in percentuale dal 20% al 4%, da me rinominato “di tutto un po’” e che, come ogni cosa di cui non si capisce l’identità, passa di mente subito. Ho intuito, però, ciò che avrei capito dopo: in Nuova Zelanda molte aziende posso permettersi di divertirsi assai in cantina … e ovviamente catturare anche solo per curiosità l’eno-appassionato. Io sono stata catturata dal penultimo bicchiere dei dieci “tastes” proposti, l’ “Airfield” 2011 Merlot/ Malbec. Degli otto rossi assaggiati, era il più autentico, c’era chiara l’indole fresca e scanzonata del Merlot e la carnalità del Malbec con la ciliegia polposa, non completava la sua parabola gusto/olfattiva completamente, ti lasciava la voglia di berne un altro bicchiere, cosa non possibile in quel momento…visto il tasso alcolico nel sangue e le curve ‘finte’ del ritorno. Ed ecco perché questo è uno dei  vini che ho riportato. Presa per la gola di berlo un’altra volta.

Il vino del “famose a fida’”

L’avventura non è bella se non prevede imprevisti, cambi o integrazioni di percorso e una dose di “famose a fida’” che sicuramente è il pane quotidiano dell’essere solitari avventurieri. Mi sono fidata a mangiare il fegato di maiale a fette adagiato su una collina di purè, su isola di piselli galleggianti in salsa barbecue… e a suo modo le suggestioni oniriche notturne sono state illuminanti, come poteva non suggestionarmi l’orizzontale, propostami da Anna di T.WA.RA, dei campioni di vasca, appena usciti dalla fermentazione, torbidi ma con un chiaro e determinato “vagito” da lasciarti sbalordita e assordata?  Ecco questo mi ha fatto ben sperare nel riportare in patria una bottiglia con la consapevolezza del “famose a fida’”. E se la fiducia è più forte al mattino, quando ci svegliamo pieni di buone attese per la giornata, non c’è forse da stupirmi che il Pinot Noir 2011 “ Kia Ora Te Whare Ra”, dal Maori ‘Benvenuta, Casa del sole che sorge’, appunto, abbia corrisposto alle mie attese.  Anche se avevo assaggiato in cantina solo bianchi in fase evolutiva ( per diritto di resoconto il Riesling, il Sauvignon blanc  e  il Gewürztraminer 2013, avevano la stoffa di bianchi promettenti, dove già quel sentore uvoso-panoso aveva lasciato ampio spazio a profumi e sapori evoluti della serie “Io sono io e tu non sei…”), ho scelto “a fiducia” appunto di riportarmi il Rosso dell’azienda, confermando in patria le suggestioni diffuse sul Pinot Noir’ style in Nuova Zelanda.

I vini che chiudono il cerchio.

E’ stato in un giardino di 30mq creato a supporto delle preparazioni biodinamiche, nel Central Otago sud dell’isola del sud, in perfetta sintonia con la flora e la vegetazione autoctona circostante, che  ho avuto la prima  risposta al ‘Why Not’. Il “Pinot Noir 2012 di Quartz Reef”, è stato il primo vino assaggiato che ha dato il ‘LA’ alla parabola proiettata alla chiusura del cerchio,  che sarebbe arrivata dopo.  Dopo quei vini che dimostrano che non ho sbagliato ‘percorso’, anche se per arrivarci ho rischiato la vita. Come nel giro nella regione del Marlborough, spostandomi nel nord dell’isola del sud, per non farmi mancare esperienze adrenaliniche nella terra degli sport estremi, quanto più che gettarmi con il bungee jumping da un ponte, ho noleggiato una bici e ho fatto il giro delle cantine dell’areale su due ruote, costeggiando strade statali dove il veicolo più piccolo è il pick-up Patrol cabinato 8 posti o percorrendo sterrati degni di un rally di mountain bike.

In uno dei rally in bici ho scelto come tappa la “FROMM Winery”, e ho festeggiato l’arrivo  a pranzo con la squadra di giovani vendemmiatori, tutti provenienti da quel triangolo Borgogna, Loira, Bordeaux, e questo non so se era un caso o una volontà aziendale. Come nel film la Fabbrica di Cioccolato, il Sig.Willy Wonka aveva gli Umpa Lumpa a fabbricare il suo buonissimo cioccolato, così FROMM Winery gli autoctoni borgognoni a raccogliere il Pinot Noir. Sarà per questo che il Pinot Noir 2011 “Clayw Vineyard” Cru e “Fromm Vineyard”, entrambi lasciavano la scioglievolezza calda e ampia del mon cherì sia al naso sia al palato. A FROMM Winery va anche la mia stellina per il Pinot Grigio 2012 “La Strada”, fermentato in legno e affinato in acciaio, pratica inusuale effettivamente. Ma visto il risultato da approfondire.

Pedalando sono arrivata fino a quello che è stato in un certo senso il giro di boa, e non solo perché arrivarci, è stato come vincere la tappa più importante del Giro di Italia.  Ho potuto riposarmi dallo sforzo mentale di capire il neozelandese conversando con Fabiano Frangi, direttore dei vigneti di Clos Henri e presidente di MA.NA.-  marlborough  natural winegrowers, ma soprattutto perchè trovarmi nella copia identica della chiesetta del villaggio di Chavignol nella Loira, adattata a cellar door , cominciava  a procurarmi un sentimento un po’ straniante nel conoscere meglio “la decantata francofona terra” stando al suo quasi completo opposto… quasi, perché la cantina di CLOS HENRI è degli stessi proprietari della Domaine Henri Bourgeois nella Loira.

Tre Pinot Noir, tre CRU, tre terre per composizione diverse ma complementari. Tre note conosciute e riconoscibili: Rosa, Rossa, Nera. Dove il rosa sta per la rosa canina e le ciliegie bagnate nel cioccolato al latte (Cru “Petit Clos”); il Rosso sta per la ciliegia sotto spirito al naso e il cioccolato al peperoncino ( Bel Echo 2010, clone 30309/1014); il Nero per la polvere del cioccolato fondente e la radice di liquerizia (Cru “Clos Henri” 2010). Un po’ spicy in entrata e un po’ amaro in uscita. Un piccolo trip.

Superato il giro di boa, ho lasciato  la bici per un fugace blitz in altra aerea vinicola, quella di Nelson. Regione in saltabile secondo la mappa delle mete biodinamiche (dove il dinamico sta anche nel guidare a destra con il cartello sul cruscotto con soscritto a pennarello nero su sfondo bianco “keep the left!!!”), poiché vi è situata l’azienda “Richmond Planis&Te Mania”. Guru della biodinamica neozelandese pluri-certificato e premiato. Il Pinot Noir 2011 di Richmond Plains ricordava proprio  la frase di Steve Jobs “L’unico modo di fare un ottimo lavoro è amare quello che fai”.  Dall’osservare con quanto amore Lars dava da mangiare alle sue due vacche mentre con fare po’ dissacrante sondava il mio specifico interesse per la biodinamica neozelandese,  ho capito che non c’era niente di eccezionale nella sua viticoltura,  quanto più una scelta di tutti i giorni. Facendo quello che la vite ti lascia intuire tu debba fare, per il suo meglio e per il tuo tornaconto sul suo frutto. Nulla di meno e nulla di più.

Tutto di più con punte superlative, invece, nell’esperienza di rientro dal blitz a Nelson e dal Abel Tasman National Park, poiché per inciso non solo vini e vigne hanno costituito la mia esperienza neozelandese.

E se sei il produttore della saga cinematografica di Harry Potter, ‘why not’ investire in un’azienda biodinamica visto la sensibilità già sviluppata in tema “Arte delle Preparazioni”, osservazioni della Luna e ascolto della Natura?

“Seresin Winery”, è un’azienda bellissima, sorridente, piena di giovani impegnati nell’attività più bella del mondo, fare vino. Cento e più ettari biodinamici, 20 buche con otri di terracotta sotterrate per l’affinamento delle basi organiche per le preparazioni (detto volgarmente sterco di vacca)… piante autoctone tutte intorno per accogliere la fauna tipica. Musica indi-rock in cantina, jazz nel laboratorio delle analisi e classica nella cellar door. Che dire di più? Chardonnay 2011 riserva assaggiato come campione di vasca, fermentazione in legno, affinamento in acciaio, in bottiglia ora mentre scrivo. Era gustosissimo. Sauvignon blanc 2011, pungente come solo lui sa di essere, all’assaggio era molto dry, sapido e scivoloso. Pinot Noir, tutti purosangue, giovani e s-lanciati su tutto quello che potete pensare di trovarci assaggiandoli, pensando alla migliore tradizione francese. Io sarei voluta tornare a casa cavalcando il Pinot Noir “ Moon&Sun” 2012, perfetto, preponderante e intenso.

A chiusura del cerchio lo stile dei vini della Nuova Zelanda è dato da una dinamizzazione degli elementi: prendi la tua materia grezza di ottima qualità perché allevata e cresciuta con ossessiva attenzione a non profanare l’equilibrio natura/uomo, prendi l’Arte del far Vino dall’altro emisfero, e mettila da parte, ossia acquisiscila come tua, e portala alla massima espressione, apportando una buona dose di lievito marca ‘NZ $’, dinamizza il tutto e si produrrà quella forza creatrice da cui scaturisce la perfetta spirale del Wine’s Svelandia style.  Perfetti, naturalmente eleganti, con un so che di radical chic che piace, conosciuti e consumati sul posto coincidono benissimo con l’atmosfera neozelandese, dove ogni elemento sociale, naturale e civile, è così precisamente concatenato all’altro che sembra paradisiaco e soprattutto in-alterabile.

Note a margine:

*Svelandia: è l’appellativo simpatico con cui mia nipote di sei anni chiama la Nuova Zelanda dove vive adesso la sua altra zia, nonché mia sorella. Motivo decisivo per intraprendere un viaggio di trentasei ore per andare dall’altro capo del mondo. Bene conoscere altri giardini enoici, ma ce ne sono molti altri da questa parte da scoprire, prima di farne motivo per spostarsi a 18.400 km di distanza. E quindi alla base di un viaggio lontano spesso c’è il romanticismo di incontrare qualcuno che ci manca.

* Incontri enoici: ci sono due aziende vitivinicole di cui non ho parlato, Hans Herzog Winery e Poderi Crisci, andrebbero scritti due articoli a parte, perché sono state incontri di scambio umano prima che di scoperta enoica. Qui ho trovato un pezzetto del giardino di casa, fatto di convivialità, partecipazione alla vendemmia e lunghe chiacchierate sull’Italia, sulla cultura del buon mangiare e del buon bere. Il Montepulciano, o Monti, 2003 di Hans Herzog ha incontrato il Cesanese del Piglio 2009, si sono stretti la mano da cugini emigranti. E il Monti ha invitato il Cesanese a provare a stare da quelle parti, che ‘si vien su bene’ ha detto. Chissà.

Il “Viburno” 2009 di Antonio Crisci è italiano, dall’etichetta tricolore con firma del produttore, al contenuto da Super Tuscan. Un pezzetto di Italia immersa in un bush neozelandese con la Croce del Sud cha fa da controparte e/o contro-appunto al cielo nostrano dove troviamo il Gran Carro.

* Tutte le aziende: In ordine da sud a nord della NZ, oltre quelle descritte, Felton Road Wine Estate, Carrick Winery – Central Otago; Hans Herzog, Rock Ferry – Marlborugh; MiroVineyard’s, Mudbrick, Man O’War, Poderi Crisci – Whaieke Island; Artisan Winery, Turanga Creek – Auckland.

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