Grancrù – prima parte

bourgogne:coca cola

di Giancarlo Marino

La gerarchia dei cru è faccenda che storicamente ha riguardato la Francia e la Borgogna in particolare.
Per oltre dieci secoli sono stati i monaci benedettini e cistercensi a tramandare oralmente tale gerarchia, frutto dell’osservazione. Le finalità erano diverse da quelle moderne: stabilire quali fossero i climat da cui provenivano i vini migliori serviva, oltre a fissarne il prezzo di mercato, ad assegnarli al Papa piuttosto che ai cardinali, ai vescovi, ai re, al resto della nobiltà, e via di seguito fino ai ceti meno abbienti.

Con la rivoluzione francese cambiò il mondo, quindi anche la Borgogna. Il primo tentativo di scrivere, nero su bianco, una classificazione dei vini della Borgogna risale al 1855, con la pubblicazione del libro “Histoire et statistique de la vigne et des grands vins de la Côte d’Or” opera del Dottor M.J. Lavalle (“professeur d’histoire naturelle médicale à l’Ecole de médicine de Dijon, directeur du Jardin botanique de la meme ville, membre de la Société géologique de France, secrétaire de la Société d’horticulture de la Côte d’Or, membre du Comité central d’agriculture de la Côte d’Or et de plurieurs sociétés savantes”). Punto di partenza continuò ad essere quanto tramandato oralmente dai monaci, ma il Dott. Lavalle esaminò in modo dettagliato e organico i climat della Côte d’Or classificandoli gerarchicamente: Tete de cuvée, Première, Deuxième e Troisième cuvée de finage. Nel 1920 anche Camille Rodier si lanciò in analoga impresa, mentre l’attuale classificazione vedrà la luce solo nella una decina di anni dopo, con la creazione per legge delle AOC. In questi 80 anni la classificazione ha avuto qualche variazione ma, nella sostanza, è rimasta uguale a se stessa.

Quello che emerge con ogni evidenza sono innanzitutto le differenze tra quanto tramandato dai monaci, la classificazione del Dott. Lavalle (e volendo anche quella di Rodier) e quella attuale. Vigne oggi classificate come Grand Cru erano in passato apprezzate assai meno e, più raramente, vigne che una volta godevano di ottima reputazione oggi sono meno reputate. I motivi di questo non sono del tutto evidenti, anche se con atteggiamento saggiamente alterato potremmo dire che tutto il mondo è paese se è vero come è vero che un gran numero di Grand Cru è aumentato vertiginosamente di dimensioni con l’incorporazione di alcune parcelle confinanti (in precedenza classificate come 1er Cru) : Honi soit qui mal y pense, recita il motto che sovrasta lo stemma dell’Ordine della Giarrettiera o, per rimanere a casa nostra, potremmo dire che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca.

Con il trascorrere del tempo le cose cambiano, come si era già intuito ai tempi della morte di Jacques de La Palice, quindi torna di attualità la domanda su quali siano i climat più sottovalutati ovvero, ai massimi livelli, quali siano quelli meritevoli dell’appellation di Grand Cru. Sono domande che rischiano di ricevere risposte diverse col variare dell’interlocutore. Sul tema consiglio caldamente la lettura del libro di Jasper Morris “Inside Burgundy”, pubblicato nel 2010 da Berry Bros & Rudd Press.

A richiesta, volendo azzardare una risposta italica, personale e, ovviamente, alterata, credo che si debbano prendere le mosse dai dati oggettivi, lasciando che solo alla fine traspaia il lato soggettivo della valutazione. Geologia (sottosuolo e suolo), orografia, climatologia, agronomia (in particolare la qualità del materiale vegetale, ma anche le tecniche di allevamento), abilità e sensibilità interpretativa del vignaiolo nelle pratiche enologiche, tutto incide sul risultato finale. Anche se l’esperienza suggerisce di preferire un vino di un produttore eccelso da un climat modesto piuttosto che il contrario, credo che nel valutare le potenzialità di un climat sia corretto limitarsi a considerare le variabili non umane, considerando invece quella umana solo nel momento di valutare il prodotto finito, il vino nel bicchiere.

Gevrey-Chambertin
Mi stuzzicherebbe parlare dei climat che NON meriterebbero a mio avviso la classificazione di Grand Cru. Se Chambertin e Chambertin Clos de Beze sono stati storicamente e unanimemente considerati di livello eccelso, infatti, molti degli altri attuali Grand Cru hanno ricevuto apprezzamenti quanto mai variegati. Per il Dott. Lavalle solo la parte alta di Chapelle, Ruchottes, Griotte, Mazis e Charmes Chambertin era meritevole della classificazione di Premiére Cuvée de finage (il secondo gradino, quindi, dopo le Tete de Cuvée Chambertin e Chambertin Clos de Beze), nessuna particella di Latricières Chambertin, confinato integralmente tra le Deuxiéme cuvée de finage. Osservando gli aspetti geologici, orografici e climatici, sono portato a simpatizzare con la posizione del Dott. Lavalle. Solo le due Tete de Cuvée, infatti, sono caratterizzate da un sottosuolo geologicamente complesso (caratterizzato dalla presenza di tutti i tipi di calcare tipici della Cote de Nuits: calcare di Premeaux, calcare argilloso, marne a ostrea acuminata, calcare a Entroche) e sono al riparo, grazie ai boschi che sovrastano la collina, dai venti freddi di nord-ovest che si infilano dalla combe de Lavaux a nord e dalla combe Grisard al confine con Morey St. Denis.

Per gli stessi motivi, se c’è un cru che meriterebbe la promozione a Grand Cru quello è il 1er Cru Clos St. Jacques: una complessità geologica paragonabile a quella dello Chambertin, una collocazione a metà del versante della combe de Lavaux con esposizione est/sud-est, al riparo dei venti freddi. Diviso tra cinque proprietari (Rousseau, Fourrier, Clair, S. Esmonin, Jadot) dà vita a vini spesso memorabili che nulla hanno da invidiare a grand parte dei Grand Cru. Non mi sembra che altri 1er Cru siano meritevoli di promozione, anche se alcune versioni di Cazetiers, Lavaux St. Jacques, Estournelles St. Jacques, Combe aux Moines, Goulots, Champeaux e Combottes sono di livello eccelso. Segnalo sul 1er Cru Combottes l’aneddoto malizioso di un noto produttore di Morey St. Denis, secondo il quale questo cru non avrebbe ottenuto la denominazione di Grand Cru solo perché negli anni ’30 era di proprietà quasi esclusiva di vigneron di Morey St. Denis. Gelosie, dispetti, ripicche tra vicini? Può essere, ma con l’eccezione forse di alcune versioni di Dujac e dell’immancabile Leroy non mi ricordo di aver mai bevuto nulla che mi facesse pensare ad un grand cru.

Morey St. Denis
Basti pensare che quando ne parlò il Dott. Lavalle i Grand Cru avevano dimensioni nettamente più contenute rispetto a quelle attuali per capire come alcune particelle non siano di valore pari a quelle “originarie”. E non è probabilmente senza significato che sia Clos de Tart che Clos des Lambrays siano suddivise, vendemmiate e vinificate separatamente, per comporre la cuvée definitiva solo dopo avere valutato le singole parcelle.
Nessuno dei 1er Cru merita una valutazione di Grand Cru (i migliori, del resto, sono già stati inglobati in tutti i Grand Cru del comune) anche se alcuni di essi, Faconnieres e Millandes i primi che mi vengono in mente, meritano una segnalazione particolare.

Chambolle Musigny
Se Musigny è sempre stato storicamente uno dei climat più reputati (l’unica Tete de cuvée del comune per il Dott. Lavalle), i giudizi su Bonnes Mares non sono mai stati unanimi: nelle migliori versioni (Roumier su tutti) Bonnes Mares non usurpa di certo il titolo. L’unico 1er Cru per il quale ha senso discutere in termini di eventuale promozione a Grand Cru è Les Amoureuses. L’esperienza più chiarificatrice, oltreché più gratificante, è quella di assaggiarlo fianco a fianco con i migliori cru del comune nelle cantine di alcuni produttori (e il pensiero corre estasiato a Mugnier, Roumier, De Vogue) e constatarne il valore assoluto pur non avendo né la struttura né l’energia di un Musigny o di un Bonnes Mares. È un vino che combatte l’energia dei più titolati vicini con la nobiltà del tratto, la finezza, l’eleganza, la complessità, la souplesse. Christophe Roumier non manca mai di confessare si tratta del vino della sua cantina che preferisce (pur producendo Bonnes Mares e Musigny da far accapponare la pelle).

Nessun altro 1er Cru è alla sua altezza, ma sottolineo la costanza qualitativa di Les Fuées, Les Cras e Les Charmes e i più sporadici ma ugualmente grandi risultati, presso alcuni produttori, di Sentiers, Feusselottes, Gruenchers e Derrière-la Grange. La mia simpatia e personalissima predilezione al Véroilles di Ghislaine Bathod.

Vougeot
A Vougeot non ho ricordi indelebili anche se alcuni, rari, vini bianchi (in particolare dal Clos Blanc) mi fanno pensare che si tratti di una delle pochissime zone della Cote de Nuits ove sia possibile trovare qualcosa di buon livello in bianco.
Su Clos Vougeot sarebbe invece necessario un capitolo a parte. Il tempo e lo spazio sono tiranni, quindi mi limito a ricordare come gli stessi monaci avevano osservato come le particelle migliori siano quelle più a ovest, intorno allo Chateau de Vougeot. La parte più ad est presenta uno strato di terra più alto e una maggiore componente argillosa, con conseguente problema di ritenzione idrica nelle stagioni piovose. Il rovescio della medaglia, considerato il mutamento climatico in atto, comporta però che nelle annate calde e siccitose proprio queste caratteristiche (fino ad oggi considerate un limite alla qualità del vino) si rivelino l’atout vincente per sopperire alla carenza di acqua. Oltre 50 proprietari e ancor di più le versioni, è inevitabile una certa eterogeneità nei risultati: conoscere i produttori è una scelta obbligata per evitare delusioni.

Flagey Echezeaux e Vosne Romanée
La “perla” della Cote de Nuits, o meglio lo scrigno che raccoglie il maggior numero delle sue innumerevoli perle. La sua planetaria notorietà fa si che in questa zona non ci sia più nulla da scoprire o da rivalutare. Tutti i Grand Cru sono degni della classificazione, anche se alcune delle 11 parcelle di cui si divide Echezeaux non sono all’altezza delle migliori e se La Grande Rue, storicamente considerato cru di primissimo livello, non sempre conferma le sue nobili origini. Quest’ultimo mi piacerebbe vederlo vinificato da più produttori (ad oggi è un monopole), per confermare o smentire ogni dubbio sul suo effettivo valore.

Il dilemma sui potenziali Grand Cru qui si fa più forte. Di getto, direi che Malconsort e Cros Parantoux meritano la promozione. La bravura dei due produttori di quest’ultimo, tuttavia, potrebbe farlo brillare anche oltre l’intrinseco valore, se è vero che due secoli fa il Dott. Lavalle lo classificava come troisième cuvée. Qualunque appassionato conosce poi il valore di cru quali Beaux Monts, Brulée, Suchots (almeno la parte più alta) e sa che nelle mani dei migliori vigneron e nelle migliori annate può attingere senza fatica i vertici di un Grand Cru. Preferisco, quindi, segnalare i meno celebrati, probabilmente incapaci di attingere le vette dei Grand Cru ma di grande personalità, Clos Reas, Petits Monts e En Orveaux (irresistibilmente seducente nella versione di Cathiard). Ho sporadici assaggi di Gaudichots (ovvero quel che resta del cru dopo l’annessione al mitico La Tâche) e non ho una idea precisa in merito (potrebbe essere un’idea per il mio prossimo compleanno, no?). Dovendo “retrocedere” qualche 1er Cru, avrei pochi dubbi a farlo per Chaumes (non me ne vogliano i proprietari) non degno del suo lignaggio 8 volte su 10. Premio della “Giuria”, per il “freddo” Vosne Romanée 1er cru “Rouge du Dessus”, di cui ho bevuto una splendida versione 2010 di Cecile Tremblay pochi giorni or sono.

Nuits St. Georges
Qualsiasi appassionato della Borgogna sa bene che, in realtà, da questa denominazione derivano tre tipologie di vino con caratteristiche nettamente diverse. La parte a nord, confinante con Vosne Romanée, la parte centrale subito a sud del comune, e la parte più a sud nel comune di Premeaux-Prissey. Dalla zona che confina con Vosne provengono alcuni 1er Cru degni di segnalazione ma certamente non meritevoli di promozione, tra cui Murgers, Boudots, Thorey, Richemone, Chaignots, Cras, Vignes Rondes. Buona parte delle vigne sono di proprietà di vigneron di Vosne Romanée e in questo caso la mia simpatia va al Murgers di Cathiard, allo Chaignots di Mugneret-Gibourg e al Cras di Bruno Clavelier. Mitica e introvabile, ma impossibile da non ricordare, la versione di Murgers di Henry Jayer. Dalla zona più a sud provengono alcuni dei NSG più eleganti, tra i quali Clos de l’Arlot (domaine de l’Arlot) e il Clos de la Marechale (J.F. Mugnier).

La parte centrale è quella da cui provengono i vini più archetipali, Nuits St. Georges nel midollo, senza strizzate d’occhio alla vicina Vosne Romanée e senza concessioni alla femminilità di Premeaux. Sul podio i 1er Cru Cailles, Vaucrains e St. Georges, qui non ci piove. Solo per Les St. Georges si potrebbe porre il dilemma se meriti o meno la denominazione di Grand Cru. La sua superiorità è nelle cose, in particolare per la composizione geologica del sottosuolo, unica e complessa, ma dipendesse da me lo lascerei dove sta, magari segnalando con matita rossa e blu che si tratta del cru più nobile di Nuits. Tralasciando le versioni di Gouges, Chevillon e Michelot, di grande tradizione e piuttosto note, spendo la mia “fiche” su quella del giovane e promettente Thibault Liger-Belair.
[segue]

17 commenti to “Grancrù – prima parte”

  1. Stanno tutti col fiato sospeso e nessuno osa fare il primo commento. Quindi lo faccio io che sono ignorante una capra ma desiderosa di imparare.
    Di tutta questa meravigliosa lezione, così chiara e nitida, nel tuo stile asciutto, seppure alterato, non mi rimane solo la voglia di assaggiare, bere, ri-assaggiare e ri-bere. Mi resta il suono di parole musicalmente – non solo enoicamente – importanti come Clos de l’ Arlot, Rouge du Dessus, Clos du Tart e soprattutto il – mitico per me – Chambolle Musigny Premier Cru les Amoureuses.
    Le parole ed il loro suono diventano importanti per abbellire un vino e il luogo dove nasce. Ed anche per raccontarlo come hai fatto tu, caro Magister.

    Ps Anche “Tete de cuvée” si difende comunque, come termine definitivo.

  2. Quello che mi viene da dire a me e’ che, per la sua stessa natura, il vino e’ un argomento di cui tutti si puo’ parlare. Un po’ come il calcio, insomma. Pero’ risulta evidente come anche per uno dei piaceri piu’ istintivi e diretti che esistano, lo studio e la conoscenza siano necessari per poter parlare con cognizione di causa.
    Com’e’ del resto normale per ogni cosa.
    E allora mi domando, come mai tanti “professionisti” del vino, che col vino ci campano, non prendono l’argomento un pochino piu’ sul serio, non studiano e non ci sudano un po sopra come si dovrebbe in ogni rispettabile professione?

  3. Bell’articolo che scoperchia un limite della grande Borgogna. Quanto scrivi ci fa capire che Lavalle aveva già compreso tutto della Côte de Nuits quasi due secoli fa. Mi trovi pienamente d’accordo che non tutti i GC meritano la menzione assegnata infatti negli anni ’30 al momento della pubblicazione delle AOC sono stati fatti diversi pasticci estendendo, per motivi di convenienza, le denominazioni a vigne non meritevoli.

    Come dici tu gli esempi più lampanti sotto i nostri occhi sono nei Grands Crus di Gevrey situati sotto la Rue des Grands Crus. Vedere un GC toccare la N74 (Charmes/Mazoyères) o confinare direttamente con l’area comunale senza un cuscinetto 1er cru (Charmes, En Griotte, En La Chapelle), lascia perplessi, anche se alcuni grandi vini si producono anche in queste parti, vedi Claude Dugat e qualche altro. Concordo pienamente che ci sono grandi territori nella Combe di Lavaux.
    Stesso discorso per Clos de Vougeot che ritengo molto sopravalutato, basta vedere che gran parte della denominazione occupa lo spazio dell’area comunale con vigne che si affacciano alla Route National. Solo 12 ettari di superficie village contro i 50 in GC !
    Già allora i monaci Cistercensi avevano individuato le migliori zone: parte alta per la Cuvée des Papes; parte centrale per la Cuvée des Rois; parte bassa per la Cuvée des moines.

    Per quanto concerne Echezeaux attendo consigli sui vini che sostengono il livello GC.

    Attendo con impazienza la 2° puntata

    Buone Feste a tutti

    Stefano

  4. Caro Stefano, non hai bisogno di consigli e i tuoi pareri sono sempre graditi.
    Gli Echezeaux all’altezza sono molti, probabilmente quindi è più un problema di affinità con lo stile dei produttori. Alla volee direi che i miei preferiti sono i “vecchi” di Engel e Rouget/Jayer, Mugneret-Gibourg, Cecile Tremblay, Bizot. Non sono mai stato rapito da quelli di Grivot, Confuron-Cotetidot e DRC ma sono sempre pronto a ricredermi se qualcuno me li fa bere :-)

  5. E mi sono dimenticato, tra gli altri di cui cercherò di rintracciare in memoria, quello, ottimo, di Anne Gros, probabilmente per colpa della impronunciabilità del lieu-dit :-)

  6. @Gianpol, mi ero perso il tuo intervento. Un professionista serio che studia come un matto la Borgogna io l’avrei scovato, prima o poi te lo presento :-)

  7. …ascolto, imparo, sorrido. E’ sempre bello leggere il mio maestro di Borgogna…

  8. Caro Marco, io spero che nell’ordine tu sorrida, ascolti, impari (ammesso che tu ne abbia bisogno). Di questi tempi generare sorrisi è già un bellissimo risultato.

  9. Ciao Giancarlo.
    Una domanda molto diretta e ingenua. Visto che qui si parla di grancrù, quali sono le caratteristiche, a tuo giudizio, che PERCETTIVAMENTE non potenzialmente, distinguono un grancrù da un premiercru, etc..

    Avendo io frequentato il corso di “professionista serio che studia come un matto la Borgogna”, e assaggiando i primi due grancrù che ci presentava, cioè Martin Bart, Chambertin Clos de Beze, 2005 e Tortochot, Chambertin, 2007, scrivevo: “di altro livello, sopratutto in bocca: altro che seta, velluto, cotone, e quel che si voglia…qui c’è davvero la compresenza percettibile di sensazioni diverse e magari contrastanti ma espresse con la leggerezza e vitalità di chi è giovane.”

    Dunque, complessità, spessore, levità, energia, vitalità, suggestione?
    Che?

  10. Le differenze tra un 1er cru e un grand cru sono spesso minime. In altri termini, tra le due categorie non c’è uno scalino netto, il più delle volte.
    Tanto al pezzo, mi verrebbe da dire che la differenza sta in primo luogo nella lunghezza e nel finale di bocca. Ovviamente anche la complessità, magari anche l’energia, certamente non la suggestione….
    Di certo non esiste uno strumento per misurare matematicamente.

    • D’accordo!

      E allora – sia detto con il massimo buonumore possibile – nel caso con i punteggi come la mettiamo?

      Ciao e buone feste a tutti

  11. I punteggi non sono lo strumento per misurare, semmai sono la misura… :-)
    Buone feste anche a te

  12. Bonjour à tous, ci tenevo a dire un paio di cose anch’io, pur avendole già in larga misura anticipate (benché nei fumi dell’alcol) in occasione del bel pranzo di ieri con Giancarlo e altri Alterati.
    In primo luogo, vorrei dire che è la prima volta che commento questo post dell’amico Jean-Charles, il quale mi aveva invece scambiato per il Gianpaolo intervenuto il 20 pomeriggio: essolui, che si affaccia spesso a commentare in rete le questioni enoiche, con argomenti tutt’altro che trascurabili, è Gianpaolo con la enne, io invece con la emme (e sempre col mio cognome per esteso).
    Venendo al post, di cui condivido in blocco le riflessioni, mi sento unicamente di sollevare un’obiezione, anch’essa però già anticipata e chiarita a voce: cioè a dire che il passaggio in cui Marino scrive testualmente “Quello che emerge con ogni evidenza sono innanzitutto le differenze tra quanto tramandato dai monaci, la classificazione del Dott. Lavalle (e volendo anche quella di Rodier) e quella attuale” rischia di alimentare un fraintendimento: se consideriamo infatti l’insieme della classificazione attuale, prevalgono di gran lunga gli elementi di continuità e di coerenza, tanto col lavoro di Lavalle che con l’originaria impostazione dei monaci. Emergono tuttavia qua e là anche alcune significative differenze, che con lucida puntualità Giancarlo mette in luce e contestualizza, forte di una consuetudine con l’assaggio dei Grand Cru borgognoni nelle modalità critico-interpretative della degustazione che gli garantisce sia un’ampia visione d’insieme che una dettagliata e quasi micrometrica capacità di analisi dei singoli casi in concreto.
    Tra i casi in cui si impone con maggiore evidenza un elemento problematico e un’esigenza di estrema cautela nell’accogliere il dettato dell’attuale mappa dei Grand Cru, c’è poi il Clos de Vougeot, per il quale Marino sottolinea che “sarebbe necessario un capitolo a parte”. Come dargli torto? Confesso di non essere però capace di conservare il suo equilibrio e la sua moderazione: a mio giudizio, degli oltre 50 ettari vitati che compongono il Clos solamente una minima parte rivendica a buon diritto lo status di Grand Cru; e purtroppo in quella piccola parte (cioè nelle vigne che circondano lo Chateau, subito sotto i Petits Musigny) quasi la metà dei vigneti appartiene al Domaine di Bernard Gros (Gros Frère et Soeur) che ne ricava un vino di opulenta ricchezza speziata per cui ammetto di non avere alcuna simpatia. L’esatto opposto, in termini di macro-differenze stilistiche ed espressive, di quell’emozionante e impalpabile versione di Les Amoureuses che il nostro amico e mentore ha generosamente immolato in occasione del pranzo di ieri: a neanche cento metri di distanza, da un vigneto inopinatamente classificato Premier Cru, escono vini di una finezza e complessità inattingibili anche per il miglior Clos de Vougeot.
    Se è possibile qui forzare un po’ la mano, il Clos de Vougeot mi fa spesso pensare a quello che il mio maestro Emilio Garroni diceva dell’Uomo senza qualità di Musil: parafrasando Musil, un Grand Cru senza qualità “è fatto di qualità senza Grand Cru”; parafrasando Garroni, un Grand Cru senza qualità “è precisamente un’esperienza senza centro, un’unità vuota di innumerevoli determinatezze”.

    • Applausi al testo marinesco e alla chiosa gravinesca. Come Jean-Paul inverso il testo di Jean-Charles, anch’io distribuisco le dosi di condivisione/dissenso delle acute note di quest’ultimo commento su un 98% contro 2%: concordo su tutto, tranne sull’affermazione un po’ forte secondo la quale da Les Amoureuses “escono vini di una finezza e complessità inattingibili anche per il miglior Clos de Vougeot”. Direi che nella mia esperienza (e forse meglio: nel mio pregiudizio) i migliori Chiusi di Vugiotto non sono secondi a nessun cru borgognone. Esclusi forse il soprastante Musigny e i “soliti” due o tre gioielli vosnici.

  13. Scrivete quel che vi pare che è sempre uno contributo nuovo alla cAnoscenza.
    Io aggiungo solo di essere grata alla donazione della bottiglia recante in etichetta la dicitura “…Les Amoureuses”, talmente grata che ammetto di essere rimasta silente per circa minuti 2.30, il che per me è straordinario.
    Pur essendo presente sulllo steso desco una bottiglia di bordolese muscolatura michelangiolesca, un poco restìa a concedersi subito, la borgognotta sopracitata ha sparso sui sensi e sul cuore una commozione suggestiva che l’altra non è riuscita a trasmettere.

  14. Grazie, come sempre è un piacere leggere queste “chicche”.
    Fabio

  15. Eccellente sintesi! Mi stupisco però che tra i bianchi della Cote de Nuits non siano ricordati gli eccellenti Monts Luisants mirabilmente vinificati da Dujac (chardonnay) e Ponsot (aligote di oltre cento anni!), nonché il Musigny blanc di De Vogue. Complimenti ancora.
    Livio Giorgioni

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