di Raffaella Guidi Federzoni
Un tempo si chiamava Wine Maker Tour, ultimamente si preferisce il termine Roadshow, ma sempre di quello si tratta: un insieme di produttori transumanti per la gloria e la borsa del vino.
Può essere organizzato da, come potrei dire, una casa editrice specializzata che mette insieme la crème de la crème di quanto dalla stessa viene giudicato degno e a caro prezzo portato a giro per il mondo. In questo caso la transumanza avviene a puntate e non tutta in una volta. Quindi per me non rientra nella categoria e nello spirito dell’autentico Roadshow.
Questo per essere tale ha bisogno di alcuni elementi indispensabili che vado subito ad elencare:
− almeno una quindicina di produttori di almeno quattro nazionalità differenti
− deve toccare almeno tre città differenti, una al giorno.
− eccezionalmente le città possono ridursi a due, ma devono trovarsi ad almeno mille chilometri di distanza l’una dall’altra.
− nel programma ci deve essere almeno una levataccia per prendere un qualsiasi aereo, treno, pullman.
– deve essere organizzata dall’importatore, che paga per questo. I produttori si pagano il viaggio, l’albergo ed eventualmente i campioni. Al massimo contribuiscono per una parte minore secondo accordi personali.
L’ultimo punto è importante, distingue l’aspetto commerciale da quello meramente promozionale. Se l’evento itinerante è organizzato da chi il vino lo vuole vendere, gli inviti andranno soprattutto a clienti come ristoranti ed enoteche, associazioni di sommelier, privati appassionati. I giornalisti o wineblogghe saranno in minoranza. Se invece l’organizzatore vuole vendere più che altro sé stesso allora spingerà più sulla visibilità che sulla vendibilità. Le prospettive ed i risultati sono diversi.
Una volta chiarito ciò, per mia esperienza personale, forgiata da anni di spostamenti in giro per il globo terracqueo, mi sento di affermare che la formula del Roadshow è ormai usurata negli US, mentre può essere valida in altri paesi che l’hanno adottata in ritardo rispetto agli americani.
Dal punto di vista del produttore o del suo rappresentante è un’occasione di concentrare in poche ore l’incontro con i suoi clienti vecchi e nuovi, invece di andarseli a cercare uno per uno. Per il cliente vale lo stesso principio, in poche ore riesce ad assaggiare una quantità di vini che altrimenti sarebbe impensabile, tutti riuniti nel catalogo, o “portfolio” di un unico importatore/distributore.
L’aspetto negativo è la dispersione degli assaggi e il poco tempo per poter approfondire la conoscenza di una zona, una cantina, un territorio.
Il gregge vinoso si sposta in un clima da gita scolastica e più passano i giorni più aumenta l’aspetto goliardico necessario per reggere la fatica della ripetitività nel fare le valigie, acclimatarsi negli alberghi, stappare bottiglie, versare il vino e spiegarlo, massaggiarsi i piedi e non pensare a casa. Non sono solo lacrime e sangue, ci si riesce anche a divertire. Si possono assaggiare vini altrimenti introvabili, scambiare esperienze con chi fa lo stesso lavoro agli antipodi, trovare nuovi contatti.
Quello che conta è l’ultimo giorno. Finito i dovere, comincia il piacere. A volte si conclude il tour in un locale di lap-dance. Mi è successo a Orlando, Florida. Dopo mezz’ora, soddisfatta la mia curiosità di antropologa dilettante, cominciavo a sbadigliare. La parte maschile invece continuava a divertirsi infilando bigliettoni verdi negli esigui slip delle intrattenitrici.
A Rio de Janeiro ho ballato il samba pensando “che s’ha da fa’ per vendere un paio di casse!”. Ad Edimburgo sono finita a comprare pies calde alle quattro di mattina dopo cinque ore di discoteca, accompagnata da un paio di clienti poco stabili sulle gambe.
Il mio ricordo più divertente però appartiene alla chiusura del Roadshow a Montreal, Quebec. Il responsabile locale aveva organizzato la mattina successiva all’ultima degustazione una partita di calcio. A sfidarsi da una parte la squadra dei venditori locali, tutti giovani sportivi e allenati, dall’altra i rappresentanti misti delle diverse cantine. L’età e il tono fisico di questi variava fra il medio e il pessimo. Ma, Perbacco, si trattava del nobile gioco del Calcio! Cosicché quella che sulla carta sembrava una vittoria scontata dei nuovomondisti, si è trasformata in un cocente umiliazione.
Monsieur Armagnac e Monsieur Chablis all’attacco hanno tirato fuori l’arroganza gallica e segnato con grandeur, aiutati dall’export manager portoghese da me chiamato tutto il tempo Benfica perché non mi ricordavo il nome della sua azienda. Il Senor Rioja come ala destra e, soprattutto, il picciotto agé Nero d’Avola come ala sinistra hanno sputato mezzo polmone a testa ma fino in fondo non hanno ceduto. In difesa l’unica componente femminile della squadra, una Frauelin dotata della cattiveria della Merkel ma di un look molto più attraente, non ha mollato un attimo. In porta il Sior Amarone, per quanto poco semovente, ha respinto i deboli tentativi di segnare utilizzando tutte le parti del suo considerevole fisico, principalmente la panza.
Il Sor Barolo e la Sora Brunello (me medesima) relegati in panchina per motivi anagrafici, hanno sostenuto con passione trilingue il ruolo di ultrà fino a perdere la favella per abuso di tifo.
Li abbiamo fatti neri! 9 a 1, l’unico goal concesso in fondo per non demotivare completamente la forza vendita quebequoise.
Forse non sarà per sempre, ma per il presente ed il futuro prossimo il Vecchio Mondo ha ancora molto da insegnare, sia che si tratti di calcio che di vino.