di Raffaella Guidi Federzoni
Lo sapevo, me lo aspettavo, non è la prima volta né sarà l’ultima. Siamo alla fine della visita in cantina, all’interno della sala dedicata alle annate vecchie e vecchissime. Qui si conservano bottiglie che risalgono alla presa di Porta Pia. Le più antiche si possono spiare attraverso una finestrella, così a turno i visitatori si piegano, sbirciano e dopo gli usuali “Oh! Ah!” si voltano verso di me e chiedono – almeno uno del gruppo lo fa sempre – “Qual’è il Brunello più vecchio che tu abbia mai assaggiato?” La risposta è facile: “1932, assaggiato nel 2002”.
Purtroppo arriva la seconda di domanda “COM’ERA?”.
Consapevole di non poter rispondere automaticamente “Ancora molto buono” come si fa quando qualcuno ti chiede “Come stai?” e tu rispondi “Bene grazie” anche se ti si è appena allagata casa e tuo marito è scappato con tua cugina lasciando uno scoperto in banca, mi sono preparata una risposta standard che è la seguente “Un vino molto secco, senza alcuna traccia di ossidazione, dal colore aranciato, ma brillante, non smorto. Presentava sentori eterei ed inizialmente appena accennati di frutta secca. In bocca le sensazioni arrivavano ad ondate ed ogni sorso rivelava qualcosa di nuovo e sconcertante. Un’esperienza intellettuale oltre che sensoriale”. Non la posso fare più lunga perché a questo punto i visitatori hanno già perso ogni interesse e si dirigono verso la degustazione.
In realtà la risposta completa dovrebbe essere la seguente:
“Erano rimaste solo undici bottiglie, mai aperte e ritappate. Per strappare la concessione di quell’unica bottiglia ci volle il poco e l’assai. Alla fine la proprietaria disse di sì con il cuore sanguinante, solo dietro promessa di un accurato trasporto e trattamento. Così partii per Milano, accompagnata dall’enologo, tenendo fra le braccia la preziosa bottiglia come un infante. Ad ogni vibrazione del treno sudavo freddo. Mi facevo forza pensando “O la va o la spacca.” Per una volta le Ferrovie dello Stato mantennero le promesse ed il treno arrivò puntuale. Giunti al ristorante trovai il proprietario ad aspettarci con un paio di giornalisti ed una coppia di amici, uno dei quali mi avrebbe perseguitato durante tutto il pasto con commenti del tipo “Secondo me quello lì non ci capisce niente.” o “Ma a lei piace questa roba che stiamo mangiando?”.
Io ero troppo tesa e rispondevo a monosillabi. Del cibo raffinatissimo mi ricordo solo delle creste di gallo che sapevano di fungo e una specie di gelatina servita in una tazzina da caffè.
Prima di arrivare alla suddetta bottiglia assaggiammo una decina di annate diverse, tutte più che encomiabili, un paio sul viale del tramonto, ma nell’insieme notevoli per capacità di invecchiamento, complessità, eleganza e persistenza. L’onore del Brunello, dell’azienda, della famiglia era salvo ed il Sangiovese svettava come vino di classe ad altissimi livelli. Il tempo passava e l’enologo cominciava a guardare nervosamente l’orologio, pensando al treno che sarebbe partito senza di noi.
Finalmente arrivò il momento fatidico. La bottiglia era stata aperta con sapienza chirurgica: rotta la ceralacca, tirato fuori con estrema cautela un tappino che rimase integro fino in fondo. Il vino fu servito senza passare il supplizio di una scaraffatura, confesso di non ricordare la capienza dei bicchieri, senz’altro non eccessivi nella loro larghezza.
Come ho scritto, si presentava arancio scarico e tuttavia brillante. Al naso si avvertiva – prima leggero e poi sempre più importante – l’insieme di un cestino natalizio contenente frutta secca, uvetta, torrone, mandarini, marzapane. Nessun accenno fungino o di sottobosco, zero ossidazione. In bocca un miracolo di profondità, strati di primavera, estate, autunno, inverno, nel senso che tutte le stagioni della vita di un vino erano rappresentate ed integrate. Il ricordo dei gigli, l’oro del grano, i fichi settembrini, la fiamma attenuata della brace nel camino.”
Nella corsa per acchiappare il treno all’ultimo momento e durante il paio d’ore passate seduta a guardare la bassa padana scorrere veloce, cominciai ad elaborare la risposta che sto scrivendo.
Come può essere un vino di settant’anni, figliato da viti piantate cent’anni fa e curato da uomini che non appartengono più a questo mondo materiale?
Allora l’agricoltura era differente, le pratiche di cantina più semplici, il periodo di affinamento più lungo, le tavole su cui il vino sarebbe comparso più limitate. Era diverso l’andamento climatico. Era diverso il modo di assaggiare e di giudicare. Forse quella bottiglia di Brunello di Montalcino, vendemmia 1932, bevuta dopo solo cinque o dieci anni sarebbe sembrata incompleta, non all’altezza.
Chi lo sa? Quello che posso dire è che assaggiare un Signor Vino di settant’anni è un’esperienza completa di sensi, mente e cuore. Per me che l’ho provata una sola volta, un ricordo gigantesco.